Spadare: fermarle, ma come?

È notte. Per me che vivo in città con il rumore perpetuo, il silenzio del mare è assordante. Ecco perché, per qualche ora, ho deciso di rubare il lavoro a Salvo e ascoltare le voci gracchianti che escono dalla radio di bordo. Salvo, palermitano, ha un ruolo importante: traduce quello che i pescatori siciliani si raccontano da una barca all'altra durante le lunghe ore passate in attesa che le reti si riempiano di pesci. « Eh, qui è una vera schifezza….e voi…come state messi?» «Oo, ma và! Qui abbiamo raccattato solo quattro casse di piccoli naselli e qualche chilo di gamberi…», «Uno schifo di gamberi…qui non si piglia più niente…» .Siamo sul Rainbow Warrior II, la nave ammiraglia di Greenpeace, partita da Genova per un viaggio in difesa del Mediterraneo, un itinerario circolare  lungo tutte le coste, dal est verso ovest, fino a tornare in Francia, dove, all’arrivo a Marsiglia, verranno accolti in malo modo dai pescatori locali, imbufaliti contro chi, da perfetto outsider, si scaglia contro una delle più antiche attività dell’economia umana.

Le lamentele che si sentono in continuazione alla radio, non sono una "posa": i nostri mari sono in pericolo. Le risorse biologiche del mare sembravano ricche e indistruttibili e invece, negli ultimi decenni, si stanno impoverendo sempre di più. Il collasso è ormai evidente: la popolazione del tonno rosso, per fare un esempio, è ridotta dell’80% rispetto a 20 anni fa. Nel caso del pesce spada è la taglia a rimpicciolirsi: è sempre più difficile catturare prede che raggiungano la lunghezza minima di 140 cm. Si rischia così di non avere più adulti in grado di riprodursi e rinnovare la popolazione.

Il ponte di comando del Rainbow è immerso nel buio. C'è solo la luce verdastra del monitor che rivela le immagini catturate con il radar. Naomi, il secondo ufficiale di bordo, trova il tempo per spiegarmi come leggere i segni che compaiono sullo schermo. Un punto bianco è una imbarcazione. Primo problema: stabilire la rotta per evitare collisioni. Una serie di punti bianchi, seguiti da tenui tracce blu sono invece le tracce lasciate dai galleggianti che sorreggono le reti dei pescatori. Quelle che indica non sono reti qualsiasi: sono lunghissime, qualche decina di chilometri. Si tratta di spadare, illegali.

Nazioni Unite e Unione Europea hanno imposto severe regole. Eppure tutti i mari italiani vengono solcati, senza sosta, da imbarcazioni che pecano abusivamente.  I canali strategici si trovano al largo delle isole Pontine, delle coste del Cilento, al sud della Sardegna, tra Calabria e Sicilia. La caccia è grossa: i pesci spada, la preda più ricercata, sono richiestissimi dal mercato e spuntano prezzi sempre più alti, che nelle grandi città superano i 30 euro al chilo. Dunque bisogna pescarne tanti e sempre di più. In Italia l’intero settore economico della pesca non è secondario: vengono pescate ogni anno circa 300mila tonnellate di pesce, per un ricavo totale di 1.300 milioni di euro, un valore superiore a quello dell'intero settore porno legale, ovvero la vendita di video e oggetti da sexy shop.

«Le spadare galleggiano sotto l’acqua. Le chiamiamo muri della morte perché formano una parete invalicabile  e consentono una pesca troppo intensiva e non selettiva: ci finisce dentro di tutto », spiega Sofia, un’attivista greca. Alla parte inferiore  30 metri di profondità, sono attaccati pesi che la mantengono in verticale, ma la parte superiore resta flessibile e morbida. Il muro formato dalla rete è lungo oltre 20 chilometri. L’animale entra ma non può fuggire:  nuota parallelamente al muro, cercando una via d'uscita, ma i suoi colpi di coda creano dei vortici che fanno si che la rete (che non è tesa) lo avvolga in una stretta mortale.

Finiscono così i pesce spada, o i tonni, che il pescatore cercava, ma non solo: si calcola che ogni anno lo scarto superi i 10 milioni di tonnellate. «Nelle maglie restano impigliati anche delfini, capodogli, tartarughe. È una strage, e va fermata», dice Alessandro Giannì, biologo, responsabile della campagna mare di Greenpeace.

Da chi?

«Le istituzioni internazionali stanno spendendo enormi sforzi per controllare la pesca illegale», dice Alain Bonzon, segretario esecutivo della General fishery Commission for the Mediterranean, la commissione che controlla ed elabora le linee guida per la conservazione delle riserve ittiche. Per esempio, il Codice di condotta per la pesca responsabile, in forza in tutto il globo dal 1995 (vedi box). «Nel biennio in corso sono state fatte raccomandazioni a tutti i Paesi membri affinchè venissero compilate le "liste nere" delle barche che non rispettano le regole».

Sono le tre del mattino a 35 miglia dall'isola di Ponza e il sole non è ancora sorto. Il Rainbow ha raggiunto il punto. I pirati sono sotto tiro. Dormono tutti in coperta, ma scatta l'allarme. In un attimo Rafael, Marta, Emma, Anna e David indossano le tute protettive. In un secondo sono sui gommoni che vengono calati in acqua rapidamente, grazie una gru posta al centro del ponte. Partono per verificare se si tratta di  una spadara illegale o di un palamito o di una ferrettara, sistemi di pesca (del pesce spada, ma anche di altre specie) che sono invece legali (vedi box).

Secondo l’ultimo rapporto Ismea, pubblicato nel 2006, la produzione ittica dei Paesi del Mediterrraneo è di  2,2 milioni di tonnellate. Ma il consumo, in crescita vertiginosa, è più che raddoppiato rispetto a vent'anni fa. La tendenza è la stessa in tutto il mondo, e tutte le riserve ittiche, mari e oceani compresi, sono in pericolo. Il 76 per cento del pesce viene consumato dall'uomo (e la metà finisce congelato). Il 24 per cento è destinato a produrre olio e cibo per altri pesci. Ed è questa la quota che probabilmente crescerà: sono le diete per gli allevamenti di acquacultura, una fonte di alimenti che viene proposta come soluzione alla mancanza di cibo, e della quale ci si augura una espansione. Invece ha consistenti problemi di sostenibilità e, sia a causa degli impianti, sia dell'elevato consumo di risorse per nutrire gli animali allevati, è tutt'altro che ecologica.

La situazione dunque è allarmante da qualsiasi parte la si guardi.

La radio gracchia ancora una volta. Ma questa volta è David che comunica secco: «positivo!". Alessandro afferra il telefono per avvertire la guardia costiera di Sorrento. Arriverà in tempo? E se non arriva, è giusto che sia l’equipaggio del Rainbow a intervenire? Non c’è tempo da perdere. Marta e Anne, avvicinano la rete, che viene afferrata e portata verso il verricello che si trova su un lato. Salvo cala le corte che vengono fissate alla spadara. Sanny e Yannis corrono ad afferrarle. Iniziano a tirare con tutta la forza che hanno, trasformandosi, da studenti ateniesi quali erano, in scaricatori di porto. Le  prime luci dell'alba arrivano. La barca è ben visibile, appena dietro alla poppa. Parte un terzo gommone, che va a fotografare nome e targa: una prova concreta. Ma dopo una iniziale e apparente inerzia i pescatori reagiscono, lanciando pesanti minacce verbali. Momenti di tensione. Anche dall'altra parte azionano i verricelli, assai più potenti e professionali. E inizia una sorta di tiro alla fune che termina solo quando emerge una tartaruga impigliata nelle maglie. Si decide di tagliare la rete. Marta la prende in braccio, l’accarezza sul collo. Poi la libera nel blu.

Andrà peggio in un altro inseguimento, più a sud, al largo di Bagnara Calabra, quando il Rainbow verrà avvicinato pericolosamente da un peschereccio, al punto che tutti pensano a un eventuale arrembaggio. Verranno anche gettati oggetti di ogni tipo sul ponte.

Secondo i dati del rapporto Fao Lo stato della pesca e dell’acquacoltura nel mondo, il 52 per cento degli stock marini sono già sfruttati al massimo delle loro capacità, il che significa che finisce nelle reti praticamente la stessa quantità di pesce che si riproduce. C'è però anche un 24 per cento che è sfruttato in eccesso (la riproduzione non copre il prelievo) e il 7 per cento è esaurito del tutto. Come è avvenuto per il merluzzo dell'Atlantico nord occidentale, che ha scatenato una guerra economica tra Canada e Spagna.

Dopo cena, nel quadrato, l'ampia sala da pranzo, si fa il bilancio di quanto avvenuto. A bordo del Rainbow ci sono persone che provengono da Italia, Grecia, Spagna, Francia, Svezia, Finlandia, Nuova Zelanda, Australia, Brasile, Inghilterra, Libano, Germania e Olanda. Una buona fetta di mondo. L'ideale è unico: difendere il pianeta Terra e i suoi oceani. Ma non manca un ampia varietà di vedute. Una sera viene a galla un dubbio che se ne stava accuratamente nascosto: questa volta Greenpeace non sta lottando contro le gigantesche navi officina dei predatori di balene, cattivi per definizione (vedi articolo apparso sul numero 4 di Geo). Questa volta si tratta di pescatori con piccole imbarcazioni. Sarà giusto sottrargli le reti?  Non saranno, in qualche modo “obbligati” dalla povertà ad agire illegalmente?

La questione è interessante. Chi sono in realtà i pirati? Gente senza risorse o trafficanti e senza scrupolo? Agli inizi di giugno, proprio a Bagnara Calabra, 400 persone hanno dato vita a una anomala iniziativa. Hanno occupato i binari del treno per protestare contro il regolamento dell'Unione Europea che dal 2002 ha messo fuori legge l'uso delle spadare. «Il loro gesto non ha raccolto però consensi presso la popolazione locale", rivela Giuseppe Barilà, che gestisce un sito internet (http://www.geocities.com/bagnararc) dedicato alla cittadina. Altri rivelano che alcuni, ufficialmente nullatenenti, hanno tutto quello che prescrive il manuale della malavita: case con muri a vista e tetti incompleti, ma arredamenti perfetti all'interno. Oggetti di lusso. Le loro attività illegali non si limitano alla pesca. Casi isolati? Purtroppo no: molti pescatori hanno già  ricevuto somme cospicue per smettere: una delle barche smascherate da Grennpeace, la Athena,  risulta aver ottenuto 28mila euro per "riconvertirsi" ad altri sistemi di pesca o ad altre attività. Per evitare l’olocausto del mare, si scopre, ai pescatori italiani sono stati distribuiti in tutto 200 milioni di euro. Non pochi. Perché non smettono?

«La pesca nel Mediterraneo viene effettuata da  Paesi che hanno enormi differenze economiche, sociali e culturali, e purtroppo le regole non sono uguali per tutti", spiega Massimo Spagnolo, docente di Economia della pesca all'Università di Salerno. La flotta peschereccia mediterranea è composta da 90mila unità (l’Italia ne possiede 15mila). Da una parte c'è l'Unione Europea (il 57%), con Italia, Francia, Spagna, Grecia e Portogallo, dall'altra Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto, Palestina e Israele, Libano, Siria, Turchia, Malta, Cipro, Albania, dove i regolamenti europei non valgono.

Ma c'è di più. «Il mare è enorme. Le segnalazioni dei diportisti, o quelle di organizzazioni ambientaliste come Greenpeace, sono preziose. Ma abbiamo anche limiti oggettivi", dice Francesco Cammarota, della Direzione marittima di Napoli. Quali? La legge, come a volte accade, consente diverse interpretazioni: vieta l'uso delle spadare ma non il loro possesso. Risultato: se la barca ha già ritirato le reti nel pozzetto, nessuno può rimproverarle nulla. Non solo: le reti sequestrate vengono date in custodia agli stessi pescatori.

È evidente insomma che qualcosa va cambiato. «Il mare è un bene comune, ma proprio questa sua caratteristica lo rende fragile. Chi lo pesca tende a rendere sempre più intensa la sua attività e può essere fermato solo da una stretta collaborazione tra tutti i Paesi. Le regole sono già state messe a punto », conclude Spagnolo. L’importanza della pesca va ben oltre il suo valore economico, messo tra l’altro a repentaglio da  prede sempre più piccole e scarse. Ha un ruolo strategico nelle politiche alimentari, ma anche in quelle di conservazione dell’ambiente, delle risorse biologiche, nel tessuto sociale e culturale. Non possiamo permetterci di perderli, per sempre.


 

 

 

 

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