Il senso degli affari delle scimmie

Che cos’hanno in comune una scimmia, una persona che intende comperarsi la prima casa e un piccolo risparmiatore di fronte alla scelta fra un investimento in borsa e uno più “”tranquillo”? Cercano tutti di utilizzare i soldi nel modo migliore, limitare le perdite, avere un guadagno sicuro. E di fronte al rischio si comportano tutti, scimmie comprese, in modo conservativo, o se preferiamo, con la mentalità del vecchio contadino: è meglio non effettuare operazioni azzardate, e portare a casa un risultato piccolo ma concreto, piuttosto che pensare alla grande e alla fine restare con un nulla in mano.La conferma che anche le scimmie si muovono con cautela, ma anche con una certa abilità negli affari e sanno agire secondo sani principi economici, è arrivata dagli esperimenti effettuati su un gruppo di cappuccine (Cebus apella) allevate alla Yale School of management, uno dei più prestigiosi vivai di quadri dirigenti.
Qui Keith Chen, docente di analisi economica e strategia delle contrattazioni della Yale ha fondato un gruppo di lavoro interdisciplinare con Laurie Santos Ross e Venat Lakshminarayanan, due psicologi esperti di etologia, la scienza del comportamento animale. Le scimmie del loro laboratorio hanno imparato a usare dei dischetti di metallo come monete, hanno attributo un valore preciso a diversi tipi di frutta, hanno reagito alle fluttuazioni dei prezzi in modo del tutto simile all’uomo e hanno dimostrato di saper procedere, come lui, con i piedi di piombo negli affari, per evitare di perdere i soldi.
Gli economisti conoscono bene questo fenomeno. Lo valutano con estrema attenzione perché da esso dipende la propensione alla spesa, dunque anche l’andamento dei consumi. E sanno bene che escludendo i “grandi finanzieri”, che valutano su scala più ampia perdite e guadagni, la gente ha una naturale avversione nei confronti dell’incertezza, soprattutto se riguarda il denaro.
Naturale? Proprio qui sta il punto. Se fosse naturale, sarebbe impulsiva, primordiale, obbligata. Cheng, che ama esplorare le intersezioni tra varie discipline, in particolare economia, psicologia e biologia, era alla ricerca della risposta a una domanda precisa: è cultura o natura ciò che ci spinge a fare scelte oculate e a soppesare costi e benefici di ogni operazione? La risposta trovata non lascia dubbi: il nostro comportamento economico fa parte di un corredo ancestrale che condividiamo con gli anmali.
Le cappuccine hanno un aspetto grazioso, le dimensioni di un gatto. E non sono scimmie qualsiasi. Si chiamano così per i lunghi ciuffi sulle orecchie, che danno l’impressione che portino un cappuccio e sono originarie delle foreste tropicali che coprono le pendici delle Ande, dalla Colombia al Venezuela fino all’Argentina settentrionale. Il loro pregio maggiore è che sono curiose come scimmie. « I cebi hanno una intelligenza vivace, pronta a cogliere gli stimoli proposti dai ricercatori. Non sono frenetici come altre scimmie, sono di buon di carattere, e facilmente addestrabili. Il loro cervello, in proporzione alle loro misure, è enorme, e questo corrisponde a una capacità di manipolazione molto superiore a quella di altri primati», dice Elisabetta Visalberghi, ricercatrice dell’ Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Cnr, pioniera nell’uso dei cebi per la ricerca comportamentale. Dimostratisi utilissimi nei suoi studi sul gioco e sulle capacità di utilizzare strumenti a proposito, i cebi si sono diffusi nei centri di ricerca di tutto il mondo. «Recentemente, insieme a Camillo Padoa Schioppa e a Lucia Jandolo, abbiamo studiato le scelte economiche dei cebi. In particolare, abbiamo scoperto che comprendono il valore di diversi tipi di cibo, stabilendo anche una gerarchia. Non solo: il valore di due cibi che la scimmia non ha mai visto prima insieme, e fra i quali non ha mai dovuto scegliere, è esattamente quello che ci aspetteremmo sulla base del valore attribuito a questi cibi quando li ha incontrati in precedenza separatamente», conclude Visalberghi.
La teoria più accreditata finora ritiene però che l’economia sia frutto di scelte intelligenti, tipiche della nostra specie. Il fatto che in questa epoca tutto ruoti intorno allo scambio di danaro, un bene simbolico, dunque astratto, è stato persino ritenuto prova di una ulteriore tappa del nostro percorso evolutivo. E il successore dell’Homo sapiens è stato definito con il nome di Homo oeconomicus.
L’evidenza scientifica provata a Yale prova tuttavia il contrario: l’espressione più razionale dell’essere più razionale della Terra nasconde una buona dose di istintività.

Per capire le radici del comportamento economico, le scimmie cappuccine di Yale , si sono viste proporre una serie di dischetti di metallo, del tutto simili a monete. Potevano spenderli per comperare pezzetti di mela o acini d’uva, oppure cubetti di gelatina di frutta. Primo problema: avrebbero capito il valore simbolico dei soldi? La risposta conferma gli studi di Elisabetta Visalberghi: si. Le scimmie imparano velocemente a far corrispondere un certo numero di dischi a un certo numero di pezzetti di mela o di acini d’uva, e a capire se la gelatina vale di più della frutta. Nell’economia reale però, le cose non sono così semplici: talvolta i prezzi fluttuano. Dopo aver imparato nella prima fase ad associare un numero di dischetti per ogni tipo di merce, le scimmie hanno dunque dovuto fare i conti con variazioni di valore: la porzione di mela per esempio è stata raddoppiata, riducendo quindi della metà il prezzo del frutto. E il consumo di mela è cresciuto, proprio come la teoria dei prezzi prevede. Il cebo è evidentemente “oeconomicus”.
La parte più interessante dell’esperimento però è arrivata quando i ricercatori hanno voluto verificare la propensione o l’avversione al rischio. In questo caso hanno deciso di proporre in successione tre situazioni. Ciascuna di esse imponeva di scegliere tra le merci offerte da due diversi venditori. Nella prima, un venditore in cambio di un disco offriva un pezzo di mela, mentre un altro per lo stesso prezzo ne offriva due. Il secondo venditore però era inaffidabile: la metà delle volte si comportava da imbroglione, e anche lui offriva solo un pezzo di mela. Nonostante questo comportamento irritante, le scimmie hanno imparato velocemente che in ogni caso era più vantaggioso affidarsi a lui.
Nella seconda situazione, il venditore che offriva un solo pezzo di mela una volta si e una no aggiungeva una porzione premio. Il secondo venditore continuava a comportarsi come prima. In questo caso, nonostante il risultato fosse identico in entrambi i casi, le scimmie mutarono rapidamente la reazione. E le loro preferenze sono andate al primo venditore.
Nella terza situazione, il primo venditore non dava mai bonus, e il secondo portava via il secondo pezzo di mela offerto, poco prima che la scimmia lo potesse afferrare. vista la cattiveria, anche in questo caso le scimmie preferivano il primo venditore. La prova che anche le scimmie, psicologicamente, sono poco inclini a sopportare perdite.
Cosa può comportare una scoperta come questa? E’ ancora troppo presto per dirlo: una possibilità è che in natura, dove spesso le risorse sono precarie, le perdite (soprattutto se si tratta di cibo) sono da evitare perché mettono a repentaglio la sopravvivenza. L’agricoltura,assicurando controlli costanti e prevedibili, almeno per quanto riguarda l’uomo, ha in realtà cambiato questa situazione. Ma evidentemente il nostro cervello ragiona come se appartenessimo ancora a popolazioni di cacciatori- raccoglitori, quelle che vivevano sul pianeta più di 12 mila anni fa.

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