da Marco
Capovilla – Megachip
Mi è stato chiesto di scrivere un articolo sui recenti premi
per i migliori prodotti informativi multimediali che l’Ordine
Nazionale dei Giornalisti ha attribuito a due progetti di educazione ai
media condotti da Megachip nelle scuole della provincia di Milano. I
premi verranno consegnati il prossimo 19 maggio a Benevento nel corso
di una manifestazione nazionale alla quale sono state invitate le
scuole finaliste e sarà una buona occasione per la nostra
associazione per festeggiare i propri risultati sul campo, forti di un
riconoscimento conseguito unicamente grazie alla qualità
delle nostre proposte. Fin qui le buone notizie.
Non è nella nostra consuetudine crogiolarci in facili
trionfalismi e perciò proviamo a formulare qualche
riflessione collegabile a questo evento. In un panorama informativo e
comunicativo nazionale deprimente e preoccupante, vogliamo spingerci
sul terreno di un ragionamento più generale, che consideri
l’educazione ai media nella cornice della situazione
dell’informazione e della comunicazione nel nostro paese e,
in una prospettiva più ampia, nel mondo. Partiamo dunque da
un caso recente di cronaca che ha coinvolto e visto come protagonisti
proprio i mezzi di comunicazione. Tranquilli, non si tratta della
grottesca telenovela della crisi coniugale di Veronica e Silvio, che
pure offrirebbe spunti notevoli.
Qualche settimana fa l’Internet è stata scossa dal
fenomeno Susan Boyle.
Se sapete già di cosa si tratta non vi serve andare a
rivedere adesso il
video su YouTube, altrimenti, se è la prima volta
che ne sentite parlare, non perdetevelo.
In Italia la notizia è arrivata un po’ in ritardo,
ha avuto poco spazio su giornali e sul web e di conseguenza non ha
suscitato un gran dibattito, come invece è avvenuto
all’estero. Alcuni più attenti osservatori
italiani tuttavia (vedi ad esempio LSDI),
hanno messo in relazione il fenomeno Susan Boyle con il noto principio
secondo cui i nuovi media (il web) si integrano e interagiscono con i
vecchi (la TV e la stampa) e non li sostituiscono. Inoltre ai giorni
nostri questo, sempre secondo LSDI, starebbe a dimostrare la fine
dell’illusione del Web 2.0 che, secondo la vulgata comune,
avrebbe dovuto spazzare via tutto il resto. Aspetto indubbiamente
interessante su cui dibattere, ma a noi, qui, per il nostro discorso,
interessa focalizzare la nostra attenzione su altro.
Partiamo da Britain
Got Talent, una trasmissione “cult”
britannica, seguita da quattordici milioni di spettatori in prima
serata e con il 60% di share, una via di mezzo tra X Factor e La
Corrida, un format diffuso anche altrove, che setaccia il paese, in
questo caso la Gran Bretagna, alla ricerca di nuovi talenti da proporre
al pubblico e li porta al trionfo (o li getta alle ortiche) in un
tramissione televisiva che fa ampio ricorso a tutti gli strumenti
adatti a fare audience. Sottolineo TUTTI GLI STRUMENTI.
Ad oggi, in meno di un mese, secondo valutazioni diverse ma
attendibili, questo video è stato visto almeno 200 milioni
di volte e l’effetto di diffusione
“virale” continua. La trasmissione televisiva
originale, pur vista da una frazione minoritaria di spettatori,
è stata indubbiamente l’elemento
all’origine del fenomeno di diffusione rapidissima e, ad
oggi, inarrestabile, del “caso Susan Boyle”. La
rete ha fatto il resto. Qualche motivo ci deve essere in tutto
ciò. E’ nostro compito analizzarlo. Siamo
così arrivati a parlare di analisi dei media e, spostandoci
nell’ambito dell’educazione e della formazione, di
media education.
Vogliamo provare assieme un esperimento? Se siete tra coloro che
avevano già visto il filmato in precedenza e pertanto poco
fa non siete andati a riguardarvelo, allora cliccate il link
e godetevi nuovamente lo spettacolo. Se invece non l’avete
mai visto fino ad ora, questo è il momento per farlo.
Altrimenti le cose sulle quali cercherò di ragionare qui di
seguito saranno poco convincenti e perfino poco chiare. A tra poco,
dunque. Buona visione!
Bene, sono passati sette minuti. Adesso sarebbe interessante sapere
quanti di voi hanno provato, durante la visione, delle emozioni forti:
intendo dire commozione, magone, groppo alla gola, occhi umidi o hanno
versato addirittura vere e proprie lacrime. Per togliervi
l’imbarazzo e non costringervi ad uscire subito allo scoperto
posso dirvi che quasi tutti i commenti che sono stati scritti sul web
confermano la grande ondata emotiva, e dunque il successo, che ha
travolto gli spettatori di questo show. Attenzione, non mi riferisco ai
commenti lasciati dalla solita sprovveduta casalinga di Voghera (o di
Glasgow, se preferite), incapace di dominare i propri stati emotivi
davanti a una qualunque scena di sdolcinato sentimentalismo, ma anche
ai commenti raccolti nelle interviste fatte agli addetti ai lavori,
persone di spettacolo, responsabili di reti televisive. Per fornirvi un
ulteriore stimolo a rivelare le reazioni emotive che avete provato, vi
confesso di avere guardato io stesso questo video almeno venti, forse
trenta volte (per motivi di studio, si intende!) e di avere provato
SEMPRE, in maniera prevedibile, costante e scientificamente
riproducibile una forte commozione, unita al ben noto fenomeno
dell’occhio umido e del nodo alla gola. Potrei anche dirvi
con precisione in quale momento del filmato parte
l’incontrollabile marea emotiva che causa il magone e in
occasione di quali altre scene esso si rigenera e si ripete:
innanzitutto quando la bella Amanda Holden, unico membro femminile
della giuria, dopo le prime note magistralmente cantate da Susan, viene
immortalata in un primo piano mentre, sbalordita, spalanca la bocca, in
un’espressione di autentico stupore. Siamo, naturalmente,
consapevoli che Amanda Holden è una nota attrice.
I fatti: una donna di mezza età dall’aspetto
tutt’altro che attraente, con vistosi segni di
difficoltà anche verbale, ma coraggiosa e tenace, affronta
una vasta platea e una giuria composta da tre VIP del mondo dello
spettacolo che la accolgono carichi di pregiudizi. Poi, messa alla
prova, in pochi secondi grazie alla sua stupefacente performance
canora, sbaraglia ogni precedente attitudine ostile, annulla le riserve
nei suoi confronti e anzi ribalta completamente
l’atteggiamento iniziale che si trasforma come per incanto in
aperta ammirazione e addirittura in adorazione, dimostrando senza
possibilità di smentita che per essere una brava cantante la
bellezza, il fascino e il physique du role non sono condizioni
necessarie. In questa storia i riferimenti a tanti topoi della nostra
cultura occidentale sono evidenti: dalla favola del brutto anatroccolo
che si trasforma in splendido cigno al vecchio luogo comune del
“a dream comes true”, il sogno che si avvera, dalla
metamorfosi alla catarsi, passando per Davide e Golia ovvero la
rivincita del più debole sul più forte.
C’è tutto questo, in quei sette minuti, e viene
marcato ed enfatizzato in tutti i modi, leciti e meno leciti.
Questo show, e la conseguente reazione mediatica che ha scatenato,
è un vero “caso di scuola”: lo si
potrebbe utilizzare tranquillamente come punto di partenza per un corso
monografico di 60 ore all’università, talmente
numerose sono le sfaccettature dalle quali lo si potrebbe analizzare.
Noi ci soffermeremo soltanto su tre:
1) le sue caratteristiche che lo rendono una
“costruzione” perfetta,
2) la sua potenza nel far risuonare le nostre corde emotivamente
più vulnerabili,
3) la prevedibilità della sua preponderante componente
economica.
Questi, non incidentalmente, sono anche alcuni dei principi dai quali
si parte, nella “media education”,
nell’analisi dei mezzi di comunicazione di massa.
1) La costruzione
Sono riconoscibili almeno tre diversi livelli di costruzione.
Il primo livello, che è quello dello show organizzato per il
pubblico fisicamente presente nella platea del teatro di registrazione,
qualche centinaio di persone in tutto. Vi compaiono come attori
innanzitutto i tre illustri cacciatori di talenti che dalla loro
cattedra assistono alle esibizioni dei “debuttanti allo
sbaraglio”, scettici, freddi e sprezzanti ma
contemporaneamente cortesi-per-contratto a causa del ruolo svolto. La
loro mimica facciale, le loro parole, il tono della loro voce, i loro
gesti “spontanei” sono orchestrati nel minimo
dettaglio per ottenere lo scopo prefissato. Abbiamo poi il pubblico,
facilmente pilotabile grazie a numerosi e prevedibili capi-claque
sapientemente confusi tra gli spettatori. Il pubblico è
composto da persone vere, non certo da comparse, e però
è facilmente portato a reagire in maniera controllabile in
base agli umori che si è deciso di trasmettere nel corso
delle varie fasi dello show. E’ un pubblico comandato a
bacchetta. E poi abbiamo la protagonista, Susan Boyle, sulla cui
autenticità non c’è da dubitare, fino a
prova contraria. E’ lei la vera forza dello show. Il suo
essere sé stessa è l’ingrediente
principale dello spettacolo, è l’elemento che fa
cadere tutti nella trappola del reality che va davvero a scovare tra le
pieghe della società e porta sul palcoscenico persone vere.
Guardiamola, la brava Susan. La sua autenticità di donna
campagnola, vissuta ai margini in una società che non sa che
farsene di una donnona così poco fotogenica, è
strategicamente impiegata per creare un forte contrasto: da un lato con
la bellissima prima donna della giuria, dall’altro con con la
Susan del momento successivo, quella che muterà nel corso
della rapida metamorfosi. Guardate l’abito, che immaginiamo
utilizzato durante la festa del patrono del paese, un vestito che
potrebbe essere stato diverso se solo i responsabili dello show
avessero così deciso, ma che è stato volutamente
mantenuto nella sua foggia originale, senza nulla concedere ad un look
più “presentabile” o, se volete,
più “alla moda”. Guardate
l’acconciatura di Susan: una specie di cespuglio incolto con
varie parti del cuoio capelluto ben in mostra, e poi ancora le
sopracciglia folte e disordinate, mai vista una pinzetta né
conosciuta una ceretta. Susan incede a passo marziale solcando il
palcoscenico fino al punto prestabilito dal rituale. Risponde
diligentemente alle domande, a volte cerca le parole che le mancano,
per dire che ha 47 anni e che vorrebbe avere successo nel mondo della
canzone, che vorrebbe assomigliare alla più famosa e
acclamata cantante di musical del Regno Unito. E’ goffa,
impacciata, e proprio per questo risulta vera, reale, credibile.
Nessuno, pur avendolo potuto, ha ritenuto opportuno darle una mano a
presentarsi in maniera più
“addomesticata”, presentabile, un po’
edulcorata e magari elegante e curata, perché si
è capito che quanto più vistoso
risulterà il contrasto, tanto più impressionante,
clamoroso e riuscito sarà lo spettacolo. Un contrasto
intenzionalmente cercato perché garanzia di coinvolgimento
del pubblico, oramai abituato (meglio sarebbe dire attentamente
coltivato) al gusto dei circenses televisivi, fatti di ingredienti
rozzi, grossolani, a tinte forti, totalmente privi di nouances. E
così è stato.
Il secondo livello di costruzione, quello dello show teletrasmesso, ha
potuto beneficiare di un montaggio sapiente e malizioso, con un ritmo
veloce, di inquadrature studiatissime, dei movimenti di macchina, del
continuo dialogo e dei rimandi tra le espressioni della vittima/Susan e
del carnefice/giuria, oltre che della partecipazione rumorosa dei
guardoni consenzienti e gregari, vale a dire il pubblico in sala. La
mimica facciale dei giurati, in particolare del conduttore Simon
Cowell, risultante dal sollevamento delle sopracciglie, dalla
roteazione degli occhi, dagli sbuffi di insopportazione, e poi ancora
la matita portata alle labbra, gli accenni a gesti di repulsione e
disgusto, a commento delle frasi pronunciate da Susan, costituiscono il
perfetto complemento al look della ignara concorrente nonché
la sua indispensabile controparte a scopo rafforzativo. La successiva,
brevissima fase di stallo prima dell’inizio della canzone di
Susan serve a creare l’atmosfera di momentanea suspence, che
potrà, nelle tinte forti del feuilleton, avere due soli
possibili esiti: o sfociare in una prova catastrofica, con successiva
ridicolizzazione e crocefissione simbolica della vittima da parte di
pubblico e giuria, o in una esibizione sublime con commozione,
turbamento emotivo, trionfo e rito catartico collettivo di
purificazione finale.
Il terzo livello di costruzione, quello del breve filmato tanto
cliccato su Internet (che è poi l’unico che la
maggior parte di noi conosce), oltre ad ulteriori giochi di montaggio,
ha potuto inserire anche brani del backstage, un backstage altrettando
addomesticato, al quale partecipano due conduttori che pretendono di
svelare allo spettatore cosa avviene dietro le quinte e far vivere
l’esperienza “proibita” del guardare dal
buco della serratura nei segreti dello show. Qui vediamo Susan che
divora tanto avidamente quanto scompostamente un panino, la ascoltiamo
mentre confessa di non essere mai stata sposata, e nemmeno baciata, di
avere nella vita solo un gatto, di aver sempre sognato di cantare di
fronte a un vasto pubblico e di avere tutta l’intenzione di
farlo scatenare stasera, quel pubblico (“I wanna make that
audience rock”), cosa che, considerate le inadeguate
sembianze e la palese inverosimiglianza dell’eroina, appare
immediatamente, a chiunque la guardi, come una pretesa manifestamente
ridicola se non grottesca. Durante la breve presentazione iniziale
davanti al pubblico, inoltre, la continua alternanza e il continuo
“dialogo” tra le inquadrature strette su Susan, i
tre giurati e alcune persone in platea accuratamente selezionate (vere?
false? comparse prezzolate?) crea un clima ridanciano di diffuso
scetticismo e palpabile sarcasmo nei confronti della candidata, del
tutto inconsapevole della brutale speculazione sulla sua persona che
sta andando in onda in mondovisione. Poi, come sappiamo, alle prime
note celestiali emesse dalla sua ugola, le reazioni di pubblico e
giuria assumono, nel volgere di pochi secondi, un segno diametralmente
opposto, che passa via via dallo stupore,
all’incredulità, alla conferma di assistere ad una
prova eccezionale e, infine, al manifestarsi di un vero miracolo. Ecco,
la metamorfosi è ora completa e i giurati, rei confessi – e
dunque colpevoli ma al tempo stesso perdonabili e subito perdonati –
fanno pubblica ammenda, raccontando a Susan e raccontando anche a noi
spettatori quanto cinici e prevenuti siano stati loro e, tutto sommato,
ammettiamolo, anche noi, e quanto è vero che, a volte,
“looks don’t count” (l’abito
non fa il monaco).
2) La potenza delle
emozioni
Il semplice fatto di essere a conoscenza dei meccanismi che permettono
alle nostre emozioni di essere stimolate e di produrre determinate
risposte non ci pone al riparo dalla reazione spesso incontrollata
delle nostre emozioni. La parte analitica e razionale del nostro
cervello, infatti, quella che fa capo prevalentemente
all’emisfero sinistro, non è affatto in grado di
controllare e filtrare preventivamente le risposte che vengono invece
processate – assai più rapidamente – dalla
componente più creativa, visuale, emotiva, vale a dire
l’emisfero destro. Nella nostra società la
comunicazione da qualche decennio si è progressivamente
spostata sul versante visivo, causando l’affermarsi di quella
mutazione antropologica descritta da Giovanni Sartori nel volume Homo
videns, e ricordata anche recentemente su questo sito in un articolo
di Giulietto Chiesa. Le grandi corporation, che sulla
pubblicità, l’intrattenimento, lo spettacolo, la
fiction, i talk show e anche l’informazione hanno fondato i
loro vasti imperi, stanno mettendo a frutto tutte le conoscenze che
neurofisiologi e psicologi, sociologi e antropologi hanno accumulato
nel corso degli ultimi cinquant’anni intorno ai meccanismi di
risposta del cervello agli stimoli esterni, in particolar modo a suoni
e immagini e soprattutto alla complessa interazione tra i due. Le
conoscenze in loro possesso permettono di confezionare dei programmi in
grado di pilotare in maniera precisa, si direbbe scientificamente
prevedibile, la nostre reazioni. Il programma Britain Got Talent, con
il fenomeno Susan Boyle, è la dimostrazione sul campo della
potenza dei media nel programmare le risposte emotive di centinaia di
milioni di persone. Non dimentichiamo inoltre, in tutto questo, la
scelta della canzone interpretata da Susan: "I Dreamed a Dream" dalla
commedia teatrale “Les Misérables”. Non
possiamo permetterci di credere nemmeno per un istante che questa
scelta sia stata casuale, e non piuttosto una coerente strategia
sinergica di rafforzamento testo-suono-immagine.
3) La componente
economica.
Simon Cowell, se non principale burattinaio e regista
dell’intera operazione, è per lo meno il suo
braccio armato. Cowell è anche produttore televisivo e
produttore discografico, oltre che indiscusso mattatore dei reality
American Idol, American Got Talent, Britain Got Talent e X Factor. Ha
fama di essere sprezzante e superficiale, lo si intuisce anche solo
guardandolo all’opera di fronte a Susan Boyle, ma avendo
contribuito alla scoperta e al lancio di numerosi artisti di cui
provvede immediatamente a mettere a frutto il talento, nel 2008 ha
portato a casa 45 milioni di euro. Le cifre in gioco fanno intuire come
i suoi programmi televisivi nascano con il preciso scopo di essere
macchine perfette per fare quattrini. Nulla è lasciato al
caso e si può facilmente pensare che anche dietro alla
straordinaria diffusione del video su YouTube con Susan Boyle ci sia la
accurata pianificazione degli strateghi del viral marketing.
E’ altresì chiaro, a questo punto della nostra
riflessione, che Cowell e gli altri esimi giurati, che fingono sorpresa
nel sentire che “quella donna” è non
solo in grado di cantare, ma ha anzi una capacità canora di
primissimo livello, è stato ampiamente informato
preventivamente da coloro che hanno portato la candidata Susan Boyle a
superare le prime selezioni e sa già che
diventerà, grazie a questo show, l’attrazione da
circo Barnum dell’anno.
Qualche conclusione.
Strumenti di analisi tutto sommato piuttosto semplici e alla portata di
tutti ci permettono di comprendere come è avvenuta la
costruzione del successo, prima televisivo e poi internettiano, della
prova di un’emerita sconosciuta.
L’apparentemente casuale e innocente scoperta di una nuova
voce nel mondo del dilettantismo canoro britannico e la sua
impressionante metamorfosi in un fenomeno mediatico senza precedenti ha
precisi contorni di ricerca, pianificazione, strategia e calcolo. Noi,
i fruitori, siamo letteralmente in balia di queste continue
“trovate” dei mass media, sempre più
precise nel colpire nel segno, sempre più studiate al
tavolino. I più competenti, coloro che si sono dotati di
qualche minimo strumento di analisi, possono al massimo fornire delle
possibili letture, come ho cercato di fare io in questo tentativo di
decostruzione del fenomeno Susan Boyle.
Gli altri, i cittadini qualunque, o meglio i consumatori, come amano di
preferenza considerarci, non solo non sospettano quel che
c’è dietro, ma, come verificabile nelle numerose
reazioni agli articoli pubblicati in Usa e Gran Bretagna, sono
profondamente disturbati da coloro che svelano la macchinazione che sta
dietro ai moderni format di intrattenimento. Loro, i cittadini
inconsapevoli, vogliono essere lasciati in pace, reclamano il diritto
di fantasticare, vogliono poter continuare a sognare che una mattina la
fortuna abbia baciato una delle tante Susan Boyle che si nascondono nel
mondo, forse nella speranza inconfessata che possa un giorno toccare
anche a loro. O anche solo cullandosi nella beatitudine liberatrice
della favola del brutto anatroccolo, raccontata ancora una volta.
Noi, che qualche cosa invece abbiamo capito, pensiamo piuttosto che sia
necessario iniziare dalle scuole a insegnare i meccanismi e i linguaggi
dei mass media, perché ci ostiniamo a ritenere che non ci
sarà superamento delle mille crisi (economiche, ambientali,
demografiche, idriche, militari e via enumerando) che ci aspettano se
non si riuscirà ad avere dei cittadini in grado di capire
chi li sta prendendo in giro, con che strumenti, a che fini. Dei
cittadini che sappiano difendersi dalle menzogne e dai continui
tentativi di distrazione mediatica in quanto educati con precise
competenze nella media literacy, l’alfabetizzazione ai
linguaggi dei mezzi di comunicazione di massa.
Il riconoscimento che l’Ordine dei Giornalisti ha voluto dare
ai due istituti scolastici milanesi da noi seguiti nei loro progetti di
informazione giornalistica multimediale (la Scuola media E. Curiel di
Paullo e l’ITIS Cannizzaro di Rho) è, alla luce di
questa analisi, non soltanto un incoraggiamento al nostro e al loro
lavoro, ma una decisa attribuzione di merito nei confronti di una
disciplina innovativa, la media education, che sta faticosamente
trovando spazio anche nel nostro paese.
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