Il pallido verde del biofuel

Il governo indiano ha approvato un finanziamento di 250 milioni di dollari per favorire la produzione di biofuel  in 15 Paesi dell'Africa orientale. 

Non si tratta dunque del classico progetto di aiuto che parte dai Paesi del primo mondo per autare, o sfruttare, le economie del sud. In questo caso  il fondo è stato messo a punto dalla Ecowas Bank of investment ad development, istituita dagli stati africani a partire dall African Growth and Opportunity Act , un accordo siglato nel 2000, dalla Economic Community of West African States (ECOWAS) , una sorta di Unione europea africana, formata da Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea Bissau, Liberia, Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo.

Il fascino del biofuel per i Paesi africani, è lo stesso che proviamo alle nostre latitudini: vengono ormai considerati una interessante alternativa all'economia del petrolio. Prima di tutto, va detto, perché rendono i Governi locali un po' più impermeabili alla folle politica di fluttuazione dei prezzi del greggio.  Secondariamente perché si ritiene siano una alternativa ecologica ai combustibili fossili, tanto che fanno parte delle misure incentivate all'interno del protopcollo di Kyoto per abbattere i gas serra.

L'intenzione solo apparente è quella di rispondere alle necessità dei contadini locali, ma c'è ovviamente anche l'interesse a raggiungere i mercati internazionali, investendo in piantagioni di piante per biofuel fino a 150mila ettari, che richiederanno magazzini, impianti per la trasformazione e reti per il trasporto.

Ma anche quella che potrebbe sembrare una interessante forma di sviluppo "dal basso", ha in realtà delle enormi pecche.

Nel luglio dello scorso anno la Cornell University ha fatto il punto scientifico su quella che era una perplessità condivisa da molti ecologi. Far diventare piante come mais, soia e girasole sorgenti di combustibile infatti è un processo che impiega a sua volta energia, dunque anche anidride carbonica. E la quantità di questa energia è superiore a quella prodotta. David Pimentel, un veterano di analisi eco-economiche , e Tad Patzek, hanno condotto una analisi dettagliata sul bilancio energia prodotta energia consumata dalle biomasse. Lo studio ha dimostrato che la produzione di mais richiede il 29 per cento in più di energia (che in questo caso è fossile) rispetto a quella prodotta in un combustibile come l'etanolo;  il panico verga, una graminacea che potrebbe essere interessante per aree difficili, richiede addiritttura il 45 per cento.

Mancano  i dati per la jatropa, la succulenta che i paesi africani intendono coltivare, e che produce semi ricchi di olio. Ma analizzando coltivazioni adatte alla produzione di biodiesel, dunque simili alla jatropha perché forniscono semi ricchi di olio, Pimentel e Patzek hanno trovato che la soia consuma il 27 per cento in più di energia, mentre il girasole arriva al 118 per cento.

Nella produzione ovviamente, è stato considerato l'impiego di pesticidi e fertilizzanti, macchine per la lavorazione dei terreni, la raccolta e l'irrigazione, e infine il trattamento finale. Ovviamente nulla vieta di abbassare il bilancio coltivando biologicamente e solo su scala locale, per venire incontro alle necessità dei contadini, ma la proposta indo africana sembra invece quella di un investimento  industriale di ampio respiro, destinato ad allargarsi il più possibile. 

Va comunque ricordato che è stato Bush recentemente a dare impulso di nuovo allo sviluppo dei biofuel, all’inizio del 2006. Nel suo discorso agli Stati dell’Unione del 31 gennaio 2006, ha fatto appello alla nazione per convertire le automobili ai biofuel. E’ l’unica soluzione che offre contro il protocollo di Kyoto. Da quel momento, Cina, Indonesia, India ma anche Cuba, hanno iniziato a parlare di nuovo di piante come combustibili.

Per l'area africana tra l’altro, l'estensione di questo tipo di coltivazioni con il miraggio di aumentare le possibilità di export, come già visto in passato, potrebbe diventare altamente insostenibile perché prevede la conversione a sistemi intensivi di agricoltura di ampie porzioni di terra, richiede notevoli volumi di acqua, una risorsa che è sempre più scarsa, inquina il terreno, , facilita l'erosione del suolo e la desertificazione.

Secondo uno studio pubblicato dal Worldwatch Institute, il Brasile, per produrre il 10 per cent di tutto il combustibile che consuma, avrebbe bisogno di convertire a  piante da biofuel il 3 per cento delle sue terre coltivabili.  Per raggiungere l’obbiettivo del 10 negli Usa, sarebbe necessario il 30 per cento delle terre , e per l’Europa, il  72 per cento.

Non solo. L’interesse delle nazioni povere, non dovrebbe essere quello di rimanere tali, producendo cibo, o in questo caso energia, per quelle ricche. Ma la creazione di una alternativa, diversa da quella che ci sta strangolando, unica possibilità di futuro quando il sistema del capitale fossile sarà allo sbando.

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