Scienza africana

Per gli scienziati occidentali, l'Africa è senza dubbio un continente interessante. Qui si possono fare campagne per studiare il comportamento di animali selvatici meglio che in qualsiasi altro posto, ci sono numerosi resti di ominidi, è possibile testare farmaci su ampie fette di popolazione, e soprattutto si possono prelevare promettenti campioni di biodiversità, utili per le piante high tech del futuro. Dopo il viaggio, ovviamente, si torna a casa per l'analisi dei dati, l'uso degli strumenti, la stesura del paper. E la pubblicazione esce ovviamente su una delle riviste più accreditate europee o americane, con i nomi occidentalissimi di chi l'ha svolta.
La scienza in Africa, sembra dunque avere un valore solo strumentale.Chi vive nella parte di qua del mondo, non riceve nessuna informazione, e continua a pensare che nel continente nero anche questo settore abbia un destino foschissimo. Non esistono laboratori, non esistono persone in grado di svolgere studi, non ci sono soldi.
Spesso, nelle immagini distorte, basta usare la lente giusta per vedere un'altra forma. E il quadro appare diverso.
Si scopre per esempio che nel 2003 i Paesi Africani hanno lanciato un obbiettivo comune: quello di avere una disponibilità di spesa pari all'1 per cento del Pil per la produzione di scienza locale e tecnologia. E' più di quanto attualmente investa l'Italia. L'Egitto, l'Algeria, l'Uganda hanno già raggiunto l'obbiettivo. Il Sud Africa ci arriverà nel 2008.
Insomma la produzione scientifica africana esiste. In  Nigeria, un paese dove si trova il 40 per cento delle persone ammalate di anemia falciforme, la compagnia Xechem Nigeria ha messo in commercio la medicina Nicosan, interamente sviluppata da istituti di ricerca locali.
L' African Laser Centre, collaborazione tra Ghana e Sud Africa, è un altro esempio: si tratta di uno strumento che analizza lo stato di salute delle coltivazioni, in base alle lunghezze d'onda assorbite dalla clorofilla. Ed è stato organizzato come un laboratorio virtuale, dove vari esperti possono incontrarsi senza muoversi dal tavolo.
Alcuni ricercatori del Kenya stanno prevedendo le aree a rischio di febbre della Rift valley, una malattia delle pecore,  usando immagini satellitari che individuano i punti in cui cade la pioggia. Le uova delle zanzare che trasmettono la malattia devono asciugarsi e poi ritornare umide per sviluppare gli adulti. Conoscendo le condizioni, è possibile individuare le aree più a rischio e consigliare agli allevatori nomadi di evitarle. In Sud Africa si sta anche preparando un vaccino
Molte erano le speranze che hanno accolto l'ultimo summit dell'African Union, un'entità paragonabile all'Unione europea, che due settimane fa ha aperto il suo incontro ad Addis Abeba dedicandolo proprio alla scienza e alla tecnologia. L'obbiettivo principale era discutere un Piano di azione, proposto dall'Amcost, il ministero per la scienza e la tecnologia dell'Unione. E'  una lista di 12 punti dovrebbero servire come linee guida per una ricerca appropriata e utile allo sviluppo. Il primo propone la conservazione e l'uso sostenibile della biodiversità. E' seguito da sviluppo e applicazione sicura delle biotecnologie, uso delle competenze indigene, l'ulteriore consolidamento dell'Arican laser Centre. La maggior parte riguardano ambiti di prima necessità per l'Africa. Ma  l'elenco si chiude con una strizzatina d'occhio all'occidente e con  il proposito di stabilire un Isitituto spaziale africano. Il Piano di azione dovrebbe essere finanziato da un African science and innovation Fund, almeno nie primi cinque punti. Ma già prima del summit c'erano dubbi su chi avrebbe gestito i fondi: i Paesi direttamente, organizzazioni già esistenti, come l'African Development bank, o una nuova?
Un altro problema sono i centri di ricerca. Un meeting preparatorio, tenutosi al Cairo in novembre, ha proposto la creazione di Centri di eccellenza, come quelli che esistono in India. Ma questi favorirebbero solo lo svilppo di alcune aree a discapito di altre, con il risultato che il problema diventa più politico che scientifico.
Ma il summit si è rivelato in realtà quello che doveva, vale a dire, appunto, un incontro politico, e non certo tra chi con la scienza lavora. Nella dichiarazione finale del summit, i capi di stato si sono accordati formalmente per promuovere la scienza e la tecnologia nel continente. Con la promessa di destinare più fondi alla ricerca e allo sviluppo e assicurare la rivitalizzazione delle università africane, favorendo i giovani.  I leader africani hanno anche optato per i Centri di eccellenza, e di nuovo hanno promesso di destinare l'1 per cento del Pil alla ricerca entro il 2020.
Nessuna parola però è stata spesa però per quanto riguarda i fondi. Nulla è stato pianificato per l'African Science and Innovation Fund, perché non è stato raggiunto un accordo su come dovrebbe operare. E la decisione viene rimandata a un incontro ministeriale che si terrà a Nairobi in maggio. Anche se le sfere politiche non hanno perso l'occazione di augurarsi una maggiore cooperazione nord sud, sud-sud, ma anche basata su partnership internazionali, vale a dire con compagnie private.
Restano, alcuni dubbi. L'organizzazione basata su grandi centri di ricerca, come il già esistente AIST, African Institutes of science and technology, secondo molti esperti ricalca uno schema occidentale che non è affatto detto che funzioni in Africa. Non a caso l'Aist era stato proposto dalla World Bank, che sembra imporre sempre lo stesso modello. In questo modo però si creano delle elite, staccate dalla realtà quotidiana africana, diversa dalla nostra. Progetti con il Laser Centre non funzionano così eppure sono di ottimo livello. Sono strutturati come network e hanno una solida base locale "diffusa", che favorisce la collaborazione tra più istituti.

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